Un biglietto per le stelle

Per me inizia sempre tutto con una domanda: sarò abbastanza brava da farcela? 

Ed è un po’ tutto racchiuso in queste poche parole, il limite che mi pongo ogni volta che devo affrontare qualcosa di nuovo, di inesplorato. È la consapevolezza di avere davanti un’esperienza che ha potenzialmente la capacità di farti toccare il cielo con un dito se conquisti la vetta e di gettarti all’inferno se, invece, a salire quell’ultimo pezzo proprio non ce la fai. E io, quell’inferno, quella fragile parte di me, non la voglio proprio vedere. So che accettarla sarebbe dura ed è questo che mi spaventa. Non la verticalità, non il vuoto, non la vertigine. È il fallimento. 

Arrampicare con Andrea oggi è stato un po’ affrontare tutto questo. Era il mio primo multipitch, il che significa che arrivati alla fine del primo tiro non finisce lì, nessuna calata, nessuno riposo, nessun sospiro di sollievo: si riparte e “via camminare”, come direbbe mia nonna. 

Prima di attaccare la via, nella mia testa era tutta una litania infinita di domande: avrò abbastanza fiato? Riuscirò a tenere questi benedetti talloni bassi? Mi reggeranno le braccia? Come farò a tenere le scarpette per tutto quel tempo? Ma alla fine, poi, riesco sempre a mettere fine a questo strazio con un pensiero magico: chissà come sarà vedere il mondo da lassù … ed è solo aggrappandomi alla Meraviglia che inizio a salire. 

Mi fido di Andrea. Mi fido ciecamente. Non so perché, ma è così da sempre, sin dal primo momento che ho piantato i miei occhi nei suoi. Mi fido più di lui che di me e lui lo sa, che nella mia testa c’è un circo in questo momento ed è per questo che mi porta su una via facile, per sciogliermi un po’ i nervi, per farmi prendere confidenza; in effetti ci riesce. Non batto ciglio nemmeno quando la roccia a cui mi aggrappo si stacca e mi rimane in mano, lasciandomi a penzoloni nel vuoto. Questo episodio ha dell’incredibile e credo che lo segnerò come tacchetta sul muro delle mie personali conquiste: paura di cadere, superata alla grande ✔️

Sono così soddisfatta che quando Andrea mi chiede se voglio provare a fare un’altra via, lí di fronte, “leggermente” più difficile, non esito: dai, andiamo! 

Grande entusiasmo, tutto bello, ma prima ci sono tre calate in corda doppia da affrontare (ah, non viene l’elicottero? Eh no). Ora, tutto il mondo ama calarsi, soprattutto calarsi da solo, che fidarsi è bene ma si sa … tutto il mondo, dicevo, tranne me, che per la discesa – per qualunque tipo di discesa – nutro un odio viscerale, di quelli duri a morire. Che mi avrà fatto, ‘sta discesa, ancora non lo so, fatto sta che sono paralizzata e ovviamente riprendo la mia litania di grandi pezzi di autostima d’autore: non riuscirai mai a frenare, finirai spappolata a terra nel canalone senza nemmeno accorgertene, ecc. ecc. 

E invece, inspiegabilmente, supero anche questa. Buona alla prima, ma veramente sono scesa da sola?! 

Ancora vivi e vegeti, entrambi ci spostiamo sull’altra parete. E qui inizia il bello. Perché questa via ti frega: parte facile, la malefica. Te lo fa credere, che sia una passeggiatina e invece no, proprio no. 

Il secondo e il terzo tiro per me sono durissimi. Prima di partire, ciascuna delle due volte inizio un lungo discorso motivazionale con il mio cervello: allora Lara, ascoltami, ora prendila bassa eh! Piano piano, un passo alla volta: piede al centro e allarghi, alzati poco alla volta, non fare falcate, non appenderti sulle braccia perché tanto sei una schiappa e non ti reggono, non guardare in alto e ricordati sempre quello che dici agli altri ogni volta che hanno una difficoltà: se ti fissi sulla vetta e basta ti sembrerà impossibile arrivarci, se invece inizi a camminare, vedrai che un passo dopo l’altro la raggiungerai e, alla fine, non saprai nemmeno spiegarti come hai fatto. Perfetto, sono pronta: vado! 

Al secondo passo ho già mandato ogni buon proposito a fare un giro altrove. La parete è verticale, io vado in affanno, sono tesa, non capisco più nulla. Prendo delle piccole pause per farmi mini lavate di capo, ma sento che sto venendo su in modo totalmente scomposto, inelegante. Insomma: alla spera in Dio. 

Durante il terzo tiro le pause per prendere fiato diventano un fiume di imprecazioni di vario tipo, non mi risparmio! Le lavate di capo motivazionali smettono per lasciare spazio a un banale: portiamola a casa, babe! Come viene viene, ma fai veloce che qui non ce n’è più. 

Ed è questo che urlo ad Andrea a 10 metri dalla fine: sono al capolinea, le mie energie sono arrivate. Non-ce-la-faccio-più. Lui sorride perché non è del tutto consapevole che qualche maledizione è volata anche per lui. Ma mi ha portata in cima, il ragazzo, lo ha fatto sul serio! Mi guardo davanti, c’è un altro tiro, semplicissimo: è finita, ce l’ho fatta. Davvero. 

Mi siedo, riprendo fiato e guardo sotto: è altissimo, io ho fatto tutta questa strada scalando?! Wow. Mi guardo intorno, questi monti sono talmente belli da farti male. Non prendo il telefono per fare foto, avvicino le dita agli occhi e simulo un click. È una istantanea del cuore, lo faccio ogni volta che vivo un’emozione che non voglio dimenticare: ecco la mia Meraviglia. È arrivata, come promesso. 

Anche tu in ostaggio

Di una lunga redenzione

Ti offro il mio coraggio

Ma questo viaggio tocca a te

È un biglietto per le stelle

Quello lì davanti a te

Cambierai la pelle

Ma resta speciale

Non ti buttare via

In questo inferno

Di ombre piatte

In questo vecchio luna park

Resta ribelle, non ti buttare via